Lleyton Hewitt, l’indomabile furore di un eletto
Può essere soddisfatto Lleyton Hewitt, il leone di Adelaide che fece sentire forte il suo ruggito quando era ancora un cucciolo sedicenne e proprio su quel cemento che gli ha dato i natali dove sconfisse in semifinale Andre Agassi per poi andarsi a prendere il titolo sul proprio connazionale Jason Stoltenberg al termine di una battaglia sopita solo dal tie-break decisivo, giusto per offrire un assaggio di cosa doveva aspettarsi il circuito quando di mezzo c’era lui, un terreno in cui il furore avrebbe sempre avuto la meglio sui codici infiocchettati e l’orgoglio avrebbe sempre preceduto una qualsivoglia forma di saggezza; lui, interamente Rusty, privo di un qualsiasi aspetto multiforme, fedele a sé stesso ed alla predestinazione che l’avrebbe accompagnato al di là dei cancelli dell’olimpo nel settembre del 2001, quando rese ancora più caotica New York, e da lì proseguire in una corsa a perdifiato che lo ha eletto il n.1 del mondo più giovane della storia del tennis, verso un secondo slam nel luglio del 2002, in quella che, quanto ad atmosfera, per antonomasia può essere considerato l’antitesi dell’US Open, ossia Wimbledon, rendendo magiche due stagioni sigillate con in testa la corona d’alloro di Maestro.
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