Sampras, Kuznetsova e la caduta del tempo
Stoccarda. Non ho mai simpatizzato per Pete Sampras. Se riavvolgo il nastro dei ricordi, riaffiorano vaghe e nebulosi spezzoni di un match di secondo turno del Roland Garros 1989 ai limiti dell’imbarazzante, in quanto rimediò circa tre games con Micheal Chang, ma avrei scoperto in seguito che ancor più della superficie favorevole al connazionale pesò la “fresca installazione” del rovescio eseguito ad una mano e non più a due. Tanto meno entrai in sintonia con Sampras l’anno dopo, quando sconfisse “il mio” Ivan Lendl ai quarti di finale dell’US Open, per poi involarsi alla conquista dello slam newyorkese. Non si contano le volte che avuto modo di ammirare Pistol Pete negli anni, ma mai una volta ho avvertito quel leggero strappo al cuore, quel lieve brivido lungo la spina dorsale, quel sottile stato d’ansia che indipendentemente dalla nostra volontà prende in mano i fili del nostro sistema nervoso, oltre che cardiocircolatorio, quando nasce un amore. Nonostante la straordinaria bellezza del gesto, nonostante la plasticità con cui avanzava verso la rete, simile a un felino che dopo aver puntato la preda stava per produrre il balzo decisivo per azzannarla; non appena il frangente di gioco terminava, aveva fine anche la magia in precedenza emanata e in Pete Sampras non riuscivo a vedere altro che un ragazzo dall’andatura leggermente primitiva, lo sguardo opaco, nonché una personalissima arroganza che non si esprimeva attraverso racchette spaccate o scatti d’ira bensì nella consapevolezza della propria solitaria grandezza, quasi lo lasciasse indifferente la presenza del pubblico intorno al campo.
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